06 - Il reparto degli alienati
La parte alta del San Benedetto che si apriva verso via Belvedere era la sezione maschile. Da qui un paziente si racconta che urlasse ai passanti “tocca ‘l mur..”e che fosse sempre ricambiato da un gesto semplice per accontentarlo, anche dopo la sua assenza. E’ una storia che ancora circola per Pesaro ripresa nel romanzo Il mio manicomio di Teobaldi.
Durante la direzione di Lombroso la scuola maschile (in funzione dal 1870) fu resa obbligatoria, istituendo anche quella femminile. I corsi erano tenuti, con disciplina militare, dall'ispettore maestro. Un corso di disegno venne tenuto dal 'chiarissimo' Conte P. (era un ricoverato con quella preparazione) e poi, quando fu dimesso, le lezioni furono proseguite con metodo e buoni risultati dal medico artista Luigi Frigerio. In occasione della ''Esposizione Artistico-Industriale ed Agricola'' di Urbino, fu fatta richiesta al manicomio di prendere parte, concorrendovi con i prodotti a telaio. Il Barchetto, che Lombroso fece ombreggiare con grandi tende, fu arricchito di animali nostrani: pecore, ratti bianchi, galline; e come ai tempi di Tasso, di animali esotici: faraone, tortore, anitre, cardellini, canarini e un pavone. Tutti dati in custodia ai pazienti. Poi, grazie al sostegno della marchesa Antaldi e del barone Belluzzi, proprietari di vasti terreni, gli internati vennero condotti in villeggiatura.
Ma regolarmente l’aumento dei ricoverati rendeva la gestione del San Benedetto più difficile e le condizioni di vita al suo interno poco edificanti. Ancora nel 1905 la situazione dell’ospedale denunciata dai medici era disastrosa. Michetti si dimise e al suo posto venne nominato Luigi Cappelletti, già assistente a Ferrara. Gli vennero affiancati due primari: Giuseppe Piazzi, nel reparto maschile, e Angelo Alberti, nel reparto femminile. La sezione maschile, dove i centosettanta ricoverati erano mischiati senza distinzione, offriva un panorama disastroso: tranquilli, agitati, sudici, convalescenti, epilettici, criminali; tutti ammassati in due corridoi in contatto con le celle dei furiosi e con l'infermeria. Il loro cortile era insufficiente e su questo si affacciavano le finestre dei furiosi. Il refettorio era uno, poco illuminato e poco arioso.
Le celle di isolamento della sezione maschile erano al primo piano: poste ai lati di uno stretto corridoio, piccole e a un solo letto, con le finestre aperte e senza vetri perché altrimenti non passava né luce né aria. Gli internati che potevano accedere al cortile erano costretti a subire lo spettacolo e le invettive degli agitati, i quali se ne stavano aggrappati animalescamente alle grate delle finestre delle loro celle. Le stufe per il riscaldamento erano poche e per lo più erano allineate lungo i corridoi. Il puzzo delle latrine e dell'orina, che bagnava i pazienti incontinenti, costringeva gli internati ad una condizione di 'puzzo ammorbante', assolutamente indecente e indegno di qualsiasi istituzione pubblica di un paese civile. Per arrivare ai bagni terapici si dovevano percorrere corridoi, cortili, scale, e ancora corridoi, rendendo inutile ogni beneficio prodotto dal loro uso. Insomma, un vero inferno!
Cappelletti, sostenitore del no-restraint, tentò di rimettere le cose in ordine. Abolì i mezzi di repressione meccanica, limitandoli ai soli casi di grave agitazione, suddivise i malati, proseguì i bagni sedativi e l'ergoterapia con lavori utili all'economia del manicomio. Ritenne utili le uscite e il passeggio, proponendosi scopi di igiene mentale, mantenendo in attività le energie mentali e cercando di evitare la demenza. Anche Cappelletti era convinto che si dovesse costruire un ospedale nuovo.